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Quella geniale ed amara ironia – Ricordo di Mario Monicelli

Se n’è andato l’ultimo grande autore del cinema italiano: Mario Monicelli. Ed in fondo l’ha fatto come ci sarebbe stato da aspettarsi, in barba a chi si sorprende oggi, in questo giorno dopo di dolore per tutti coloro che amano il cinema, l’intelligenza, l’arguzia, l’ironia. Monicelli, a 95 anni, era ancora attivissimo, pieno di progetti, con il suo ultimo film datato 2006 (“Le rose del deserto”) e nessuna intenzione di considerarlo l’ultimo, per sempre. Al di là di qualche lieve incertezza nel camminare, fino a poco tempo fa si sapeva di uno stato di salute fisico straordinario di Monicelli; neanche a parlare di quello intellettivo, migliore di tantissimi giovani! Non sappiamo la verità, e dobbiamo rispettare il suo ultimo gesto. Ma, come detto, non sorprende che un uomo come Monicelli non amasse una lenta fine inattiva, sofferente, da badante e, nella migliore delle ipotesi, da centro anziani. Un altro grande toscanaccio longevo, Indro Montanelli, non aveva mai fatto mistero della sua intenzione di non attendere il lento, ed a volte drammatico, cammino del deterioramento, e che non avrebbe esitato a farla finita, qualora lo avesse ritenuto necessario per sé. Al di là di dibattiti pro-eutanasia (o suicidio assistito o suicidio tout court) o pro-life, che in questo caso non ci debbono interessare (se ne parla sin troppo dalla terza puntata del programma di Fazio e Saviano), qui si tratta soltanto di ricordare e rispettare uno dei più intelligenti maestri del nostro cinema, il più grande in assoluto in termini di genere commedia. Già diversi anni or sono avevo definito Monicelli il maestro delle risate di amara ironia. Di risate e di geniale ironia Monicelli ce ne ha regalate in grande quantità; l’amarezza ce l’ha regalata con il suo ultimo, rispettabile, gesto.

Mario Monicelli, viareggino di nascita ma mantovano di origini familiari, classe 1915, respira sin da giovanissimo l’aria dell’arte e della cultura, grazie soprattutto al padre Tommaso, giornalista e drammaturgo. Svolge i suoi studi, liceo classico e facoltà di Storia e Filosofia, tra Pisa e Milano; in quest’ultima città si dedica al giornalismo ed al cinema amatoriale, specialmente in compagnia di Alberto Mondadori, con il quale gira un mediometraggio già nel 1935, intitolato “I ragazzi della via Paal”, che riceve una menzione al Festival di Venezia. Collabora in qualità di sceneggiatore e di aiuto-regista con registi come Mattoli, Genina, Machaty, Camerini e, soprattutto, Mario Soldati, Giuseppe De Santis (“Riso amaro”, 1949) e Vittorio De Sica (“I bambini ci guardano”, 1944). Il primo lungometraggio del regista toscano, seppur in coppia con Steno (Stefano Vanzina), è del 1949 e s’intitola “Al diavolo la celebrità”, ed è una commedia brillante con Misha Auer. Dello stesso anno è “Totò cerca casa” (1949); poi, da ricordare: “Guardie e ladri” (1951 – con la grande accoppiata Totò-Aldo Fabrizi), “Un eroe dei nostri tempi” (1955 – con Alberto Sordi e Franca Valeri), “Donatella” (1956 – con Gabriele Ferzetti ed Elsa Martinelli che per questo film si aggiudica l’Orso d’Oro come miglior attrice protagonista al Festival di Berlino), “I soliti ignoti” (1958 – uno dei grandi capolavori della “commedia all’italiana”, Nastro d’Argento quale miglior film dell’anno), “La grande guerra” (1959 – straordinaria pellicola con Alberto Sordi e Vittorio Gassman; si aggiudica con ampio merito il Leone d’Oro al Festival di Venezia), “I compagni” (1963 – con Marcello Mastroianni, nomination all’Oscar), “L’armata Brancaleone” (1966 – con Vittorio Gassman), “Brancaleone alle crociate” (1969), “Romanzo popolare” (1974 con Ugo Tognazzi), “Amici miei” (1975), “Caro Michele” (1976), “Un borghese piccolo piccolo” (1977 – con Alberto Sordi), “Il marchese del Grillo” (1981 – sempre con Alberto Sordi), “Amici miei – Atto II” (1982), “La doppia vita di Mattia Pascal” (1985 – con Marcello Mastroianni nei panni del personaggio pirandelliano), “Speriamo che sia femmina” (1986), “Parenti serpenti” (1991), “Panni sporchi” (1999), “Le rose del deserto” (2006).

Il principale merito di Mario Monicelli è quello di aver dato vita a commedie con stile, compattezza, originalità, valide e curate sceneggiature, profondità d’analisi della quotidianità dell’uomo medio; e, soprattutto, l’aver saputo trasporre sul grande schermo quell’amara ironia che è il filo rosso che attraversa ed unisce tutta la sua opera. Da considerare anche la bravura nello scoprire nuovi interpreti e nel ben amalgamare i suoi cast. Un carattere non facile, come tutti i “toscanacci”, ha sempre amato tanto fare cinema, ma molto meno andare al cinema. Come spettatore, Monicelli si è sempre molto annoiato. Famoso per uscire sempre ben prima della fine del film proiettato in sala; “Tanto ho già capito tutto, e non mi va di perdere tempo”, è la sua frase più gettonata che la compagna ricorda sempre con il sorriso; così come ricorda il suo continuo borbottare durante la visione di un film.

Nello scorrere la sua filmografia ho accennato ad alcuni premi conquistati con “Donatella”, “I soliti ignoti”, “La grande guerra”; ma il palmarès personale di Monicelli è ben più ricco. Può sembrare scontato per un autore apprezzato da così tanti decenni, ma non è così. Difatti, è estremamente difficile per un autore di “commedie” ricevere il riconoscimento delle giurie dei festival e della critica in generale. Molti sono i David di Donatello ed i Nastri d’Argento ricevuti per “Amici miei”, “Un borghese piccolo piccolo”, “Speriamo che sia femmina”, etc.. Può perfino sorprendere la Grolla d’Oro e l’Orso d’Argento al Festival di Berlino per “Il marchese del Grillo”; assolutamente da ricordare il meritatissimo Leone d’Oro alla carriera a Venezia nel 1991.

Ne “I soliti ignoti” (1958), Monicelli raggiunge la più alta vetta mai raggiunta dalla “commedia all’italiana”. Un cast d’eccezione: Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Totò, Claudia Cardinale, Renato Salvatori, ma anche alcuni caratteristi straordinari come Carlo Pisacane (“Capannelle”) e Tiberio Murgia (“Ferribotte”). Di quest’ultimo si racconta come Monicelli stesse cercando l’archetipo del classico siculo. A Roma, si dice nei pressi di Piazzale Clodio, Monicelli al volante della propria auto vede Murgia, di ritorno dal lavoro in cantiere, alla fermata del bus. Resta “fulminato”; è proprio quello il volto che stava cercando. Unico problema: il suo siciliano-tipo è sardo, ed i dialoghi nel film con Claudia Cardinale (Murgia parla in sardo, lei risponde in francese) vengono posteriormente doppiati in italiano! Monicelli spronava Murgia ad assumere la stessa espressione che l’aveva colpito alla fermata del bus, ripetendogli il diktat “Altero, Murgia, altero!”. Originale la costruzione narrativa del film; eccellente l’organizzazione del cast e l’amalgama tra grandi interpreti ed altrettanto straordinari caratteristi.

Già l’anno successivo Monicelli si ripete con un altro capolavoro della storia del cinema italiano: “La grande guerra” (1959), con due grandissimi attori spesso presenti nella filmografia del regista viareggino, vale a dire Vittorio Gassman ed Alberto Sordi. Tra gli altri interpreti: Silvana Mangano, Folco Lulli, Bernard Blier, Romolo Valli, Vittorio Sanipoli, Nicola Arigliano e Tiberio Murgia. Scritto da Monicelli, in compagnia di Age (Agenore Incrocci), Furio Scarpelli e Luciano Vincenzoni, il film rappresenta un’inedita ricostruzione del processo storico nazionale, una lettura piuttosto originale ed anticonformista del primo conflitto mondiale 1915-18. Il genere “commedia” è dirottato da Monicelli verso temi politici e sociali, pur nella leggerezza delle trovate brillanti e nel dualismo padano-romano cui danno vita i soldati Giovanni Busacca (V. Gassman) ed Oreste Jacovacci (A. Sordi). Coraggiosa la scelta della giuria del Festival di Venezia nel premiare con il Leone d’Oro ex-aequo la commedia di Monicelli e “Il generale della Rovere” di Roberto Rossellini.

Nel decennio d’oro degli anni Sessanta, vanno ricordati anche “I compagni” (1963) e “L’armata Brancaleone” (1966). Nel decennio successivo, Monicelli si ritrova a dover sostituire Pietro Germi in “Amici miei” (1975). Difatti, Germi muore all’inizio della lavorazione del film. Monicelli, con l’ausilio di sceneggiatori del calibro di Leo Benvenuti, Piero De Bernardi e Tullio Pinelli, dà vita ad una commedia di straordinaria amara ironia, campione di incassi della stagione, dirigendo poi il secondo episodio della serie (ma si rifiuta, poi, di girare il terzo, che viene assegnato dal produttore a Nanni Loy). Dopo il trionfo di “Amici miei”, Monicelli è atteso ad un altro successo di critica e di pubblico: “Un borghese piccolo piccolo” (1977), dal primo romanzo di Vincenzo Cerami, racconta le peripezie di un funzionario statale prossimo alla pensione (il dottor Vivaldi, interpretato da un insolito Alberto Sordi) per trovare un posto fisso al ben poco brillante figlio Mario (l’attore -anch’egli recentemente scomparso- Vincenzo Crocitti, una lunga carriera oscura di caratterista e di comparsa in quel di Cinecittà, fino a questo suo film-svolta). Il giovane viene accidentalmente ucciso da un rapinatore proprio la mattina delle prove di concorso per un’assunzione già “sicura” grazie all’intervento dell’ambiguo dottor Spaziani (un ottimo Romolo Valli). Imprevedibile la vendetta di Vivaldi-Sordi. Un film che scorre tra grottesco, commedia e dramma.

Ma Monicelli non vuol dire solo cinema. Nella sua carriera trovano posto numerosi documentari (anche in anni recenti), spiccano anche alcune regie teatrali e di opere liriche (“Rosa”, 1981; “Gianni Schicchi”, 1983 – in occasione del “Maggio Musicale Fiorentino”; “Cavalleria Rusticana”, 1990 – per l’Accademia Chigiana di Siena). Inoltre, ricordiamo fiction televisive come, ad esempio, “Come quando fuori piove” (2000).

Grazie di tutto, Mario!

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