E’ stato presentato nei giorni scorsi nella suggestiva cornice dell’ART STUDIO GALLERY di Monia Romanelli, un angolo nascosto ed ai più sconosciuto di una Perugia etrusca e medievale, l’ultima produzione dell’artista poetessa/cantante Floriana La Rocca, “Distretto d’amore”, edito dalla Bertoni Editore e curato da Sergio Carrivale. L’autrice, pugliese d’origine e profondamente mediterranea nel sangue ha avuto trascorsi importanti sia nel campo della musica (Gino Paoli, Ivan Graziani, Riccardo Cocciante, Pino Daniele) che del teatro, partecipando ad un corso di perfezionamento per attori all’Accademia Nazionale “Silvio D’Amico” ed entrando a far parte dell’atelier di Giorgio Albertazzi. Con la presentazione di “Distretto d’amore” che si avvale anche delle raccolte “Nei cestini del pane” e Silloge di me”, alla presenza di un notevole ed attento pubblico,l’autrice ha ribadito come “il palcoscenico sia la sua dimora” e “la poesia sia uno spettacolo” riferendosi proprio al suo ultimo lavoro che sta portando in giro per i teatri umbri, promuovendolo in un contesto dove “se l’arte assolve il nobile compito di comunicare, gli sguardi della gente s’illuminano”. Ed è ciò che è avvenuto in quella piccola avvolgente galleria d’arte, dove Floriana La Rocca, non solo ha riempito ma invaso ogni spazio ed ogni sguardo. Al sottoscritto, cui è spettato il non poco gravoso compito di presentare la sua opera, il dovere di restituire le risonanze colte nella pagine del testo che sì, erano scritte, ma immensamente piene dell’essere dell’autrice, della sua voglia di comunicare della sua estasi nel perdersi nello sguardo delle persone e delle cose. E per poter capire, altro non ho potuto fare che “smontare” il titolo, giacché quel “distretto”, termine che noi usiamo nella quotidianità ben più squallida (…di polizia, …sanitario, ecc.) ben altro significato assume nel linguaggio poetico. Nel caso della raccolta di poesie di Floriana La Rocca, esso finisce per assumere ben tutt’altro senso: trattenuto; angustiato (O caro bene, o solo mio riposo, Che ’l mio cuor tien’ distretto [Boccaccio]); stretto, intimo, detto di parenti o amici. Termini che ritroviamo certamente quando si parla d’amore, che è certamente parola fra le più abusate tanto che può significare alternativamente affetto, desiderio sessuale, voglia di un legame solido. Ma essendo ogni persona unica questa possiede un proprio concetto dell’amore. Non possiamo appellarci alle sterile, fredda ed inesplicativa definizione d’un vocabolario “L’amore è un sentimento intenso e profondo di affetto, simpatia ed adesione, rivolto verso una persona, un animale, un oggetto o verso un concetto, un ideale”, poichè questi non è in grado di rimandarci affetti, sogni, aspirazioni, desideri, aspirazioni amorose o tormenti. Eppure parliamo continuamente di amore, fa parte del nostro DNA, lo scopriamo e lo patiamo ma di fatto non riusciamo mai a farlo nostro,proprio perché l’idea di amore è inafferrabile. Ed è in questa idea d’inafferrabile che inizia il suo viaggio la nostra artista, appellandosi al suo essere donna, offrendoci il suo mondo in maniera articolata, a volte depistante; ti ritrovi a seguire il pensiero di un percorso e poi, quasi bruscamente ti richiama ad altre realtà e sensazioni. L’irrequietezza della scrittura, l’inquietudine del sentire e del sentirsi, una sommessa angoscia vissuta come desiderio, portano il lettore in un mondo che parla di un amore non solamente fisico e talvolta aggressivo, laddove la donna si mette in gioco e gioca con il suo corpo, ma un amore che trova la sua forza e la voglia d’essere nella natura cui si rivolge sempre con interrogativi spesso senza risposta. Non per questo che sia una natura traditrice, incapace di sentire; la natura ed in particolar modo “la campagna che diventa gravida” è fonte d’ispirazione e vita cui la nostra non potrebbe venir meno: alberi, fiori, terra sono interlocutori privilegiati laddove la poetessa cerca risposte al suo/ai suoi amori, ch’essi siano negati, dimenticati, dissolti ma vissuti con veemente femminilità offrendosi, mai negandosi, come donna/madre (“ti attaccherai alle mie mammelle e allatterò la tua malinconia[…]”: una donna che non esita a darsi e che metamorficamente sa e vuole aspettare (“Come asse di legno/conficcata nel terreno/aspetto che si avvinghino[…]”. Qualora questa attesa andasse forse delusa, il cielo è lì pronto ad accoglierla (“Distante,non immobile/ritaglierò un quadrato di cielo/è il luogo più adatto/per riporre lamia vita[…]”) ed a riprenderla quando si farà distrarre dalle cose della vita (“Mi riconcilierò col Cielo solo quando/i luoghi disabitati di me si colmeranno/di dolore senza ferite”); egli diviene il suo habitat naturale, luogo privilegiato dal quale vivere e rivivere di ricordi, così per ricordare alla vita – spesso impietosa (e questo mi pare ritorni nella dolorosa evocazione ricorrente della figura del padre) – quanta gioia, quanto splendore sia stato vissuto e continui a rivivere. Anche se i sogni -cui ella spesso ricorre – possono apparire impietosi tanto da descriverli come una bolgia dantesca (“L’epoca dei miei sogni/ è una bolgia dantesca /efferata e dolce[…]”), l’infernale luogo da cui districarsi e riuscire a trarne il meglio che vada goduto. Ma è nell’attimo della rivisitazione, dell’evocazione dei profumi e dei colori della propria terra che più forte si fa la nostalgia; una nostalgia realistica che non si abbandona ad inutili ricami di parole ma fissa veritieri ritratti di un mondo anche lontano “Pietre antiche/ vestono il selciato/di un paese ripido/a me caro”; financo quello che potrebbe apparire freddo e sconosciuto, acquista un’anima salvo poi, dover scontrarsi con l’ineluttabile presente. Ed è in questa asciuttezza di parole, che la poesia di Floriana La Rocca si fa anche pittura. Se quest’ultima immagine appena citata è un felice richiamo ai Macchiaioli e più in particolare nella fattispecie a Signorini, ci sono altri momenti, dove la prosa accarezza la poesia, che la penna si fa inconsapevole pennello fissando sulla pagina reazioni quasi intime dell’oggetto rappresentato. Il riferimento al realismo silenzioso e malinconico del laconico Hopper è evidente in questi versi: “Lo sguardo del vecchio benzinaio/è eloquente, incontra il mio/senza domandarsi perché mai/una signora con cappello e foulard/sia così abbigliata”…; né in questo caso può sfuggire un qualche riferimento hitchkockiano ò, più in particolare, ad un certo cinema noir e/o “on the road”. O ancora Turner che, con la sua indefinita e contemplativa pittura che colpisce nel turbinio di luci e colori l’innocenza dell’occhio, ritroviamo in “[…]”scoprirò il viaggio dei temporali/prima che diventino acqua/Partiranno da un luogo lontano/dove i respiri si dirigono altrove[…]”. La scrittrice spazia con i suoi versi per il mondo, rimanda a noi luoghi e tempi interpretati nell’atto d’amore,sì, ma anche di una indefinibile sofferenza rabbiosa e rabbia sofferta che esprime attraverso una serie di ricorrenti imperativi, (“Svelati…ingannami…offendimi…usami…giocami…”) mostrandosi su un palcoscenico dove la sua vita è sottoposta ad un continua replica “Cambia scena la vita mia/tutti i giorni[…]” ed ogni volta si apre inesorabile il sipario che non è quello delle finestra che spalanchiamo tutte le mattine, ma quello che ci scopre, nel silenzio, davanti agli umori ed alle attese della gente; ed ogni volta è un interrogarsi “Cosa diranno di Me?”, ed ancora una volta – nel momento di andare in scena – quelle finestre/ sipario, si aprono non solo sulla natura, ma danno un felliniano colpo di manovella, forse neanche l’ultimo, “Sul lungomare della mia eternità cammino/con la valigia del sacro vivere”.