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Il tempo del cambiamento

“Impermanenza” di origine sanscrita, pone il termine alla base del cambiamento non solo dell’individuo in quanto io, ma relativamente ad ogni forma di vita.

impermanenzeNell’affrontare la poesia di Marina Palazzetti, non si può non prestare attenzione al titolo della raccolta e cogliere in esso il senso della sua scrittura. “Impermanenza” è certamente un termine che sfugge ai più o, perlomeno, a quanti non abbiano confidenza con un certo tipo di filosofia nella fattispecie quella buddista che colloca il termine, di origine sanscrita, alla base del cambiamento non solo dell’individuo in quanto io, ma relativamente ad ogni forma di vita.

Tutto è passeggero, tutto muta, niente è eterno. Un concetto non nuovo, ben espresso già da Eraclito con il suo “Panta rhei” (tutto scorre). Ma è proprio nell’accettazione del mutamento – che determina anche una metamorfosi – che si deve affrontare il nodale passaggio per la sofferenza. E questa sofferenza, espressa ai giorni nostri come ansia di vivere, e dunque come incapacità dell’individuo di affrontarla e superarla dacché crea un conflitto emotivo cui spesso soccombe, è al centro della poetica della scrittrice che invero – in apparente contraddizione con la sua inquietudine interiore –  pare vergare le sue parole pervasa da una certa leggerezza, da una fluttuabilità che la porta ad osservare il mondo che vive, ed a cui non si sottrae, attraverso una variegata lente colorata che non distorce il suo d’intorno “slegata / volare a braccia librate”.

Consapevole della fuggività della vita, ella si abbandona al rapimento dello sguardo che disegna una tavolozza di colori nel cantare gli elementi della natura che contempla (“il cielo all’alba / benché sia uno / appare di un bianco raggiante […]”), esala in una discreta sensuale immagine di sé (ammantata / dal sorriso della luna / la curva mia ti protegge”), non per questo venendo meno alla ricerca della sua essenza (“lungamente camminammo / ogni istante…”).

Un viaggio il suo, nella sua interiorità che si dipana in inusuali accostamenti verbali, che stordiscono il lettore, forse abituato ad una certa classicità del comporre, ma che comunque si fa irretire in questo suo gioco di parole, di metafore, di reiterazioni avverbiali; ella libera la sua scrittura, che altro non è che il suo spirito in continuo divenire, impastandola di riflessi futuristici e metafisici, creando un’alchimia di sguardi ed immagini che la sua mano/occhio imprime ed esprime senza falsi pudori. Arrivando financo a sollecitarci ad interpretare alcune sue parole, e di qui il senso del verso poetico, con e senza prefissi (as – spersa, e – salate, ri – conosco….).

Si lascia andare, quasi un navigare a vista, senza paura di perdersi ritrovandosi “a quel punto d’orizzonte / dove il giorno s’inizia”, mai paga né appagata anche quando infine dissolta,vorrebbe affidarsi “al foglio bianco / della memoria / che vorrei scrivere senza parole”.

E qui la donna esplode in tutta la sua forza, forse fragile, apparentemente, che “così stanca […] mi stendo nell’azzurro dei tuoi occhi”, invoca il nome della madre e la nostalgia dei figli. Incapace e restìa ad arrendersi agli eventi che pare altresì subire ma che vive nella loro pienezza.

La sua è una ricerca di vita, non una voglia di risposte; in fondo, pur nella certezza che nulla e niente di quello che ha vissuto e visto ritornerà, nei suoi versi ritorna sempre quello specchio che raccoglie i sogni inespressi: dinanzi all’inevitabile mutamento della vita, la speranza che questa continui ad essere tale, è questa la forza per la quale si rigenera l’esistenza ed il desiderio di non soccombere: superato l’ego ella inseguirà ancora il suono della luce, la meraviglia del tempo e l’accettazione della mutevolezza della vita che è la vera bellezza.

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