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La poesia nel terzo millennio

La poesia sembra aver perso la propria riconoscibilità sociale, non è più vista come luogo di produzione di un sapere interpretativo del mondo.

Poesia - Foto di Ulrike Mai da Pixabay
Poesia – Foto di Ulrike Mai da Pixabay

Quale presente vive e quale futuro attende la poesia? L’arte di comporre versi, l’espressione del pensiero secondo norme dettate dalle leggi metriche, torneranno a far battere i cuori ed a rimescolare le menti? Ricordo che a tal proposito partecipai, da uditore, ad un prestigioso convegno internazionale a Milano nel 1998, se non ricordo male, anno più anno meno.

La poesia sembra aver perso la propria riconoscibilità sociale, non è più vista come luogo di produzione di un sapere interpretativo del mondo. Ad essa non si accorda più fiducia, non le si chiede di leggere e giudicare la complessità del rapporto tra singolo ed ambito sociale, di misurare l’intensità del dramma epocale, di avere una funzione salvifica. La poesia sta consumando il proprio isolamento sociale, tanto che molti poeti si chiamano fuori dal mondo rispondendo alla diffusa impotenza di un’età culturale affermando la propria impotenza. Sostanzialmente la poesia non è cambiata, almeno non troppo, eppure è quasi scomparsa; l’atto comunicativo acceso ogni volta dalla poesia è ancora adeguato ai mutamenti del mondo? La crisi in cui versa da molti decenni la poesia non può neanche essere utile come tavola segnaletica di un destino comune alla musica, alla letteratura, alle arti figurative, perché – almeno personalmente ritengo – al massimo solo le arti figurative vivono una crisi simile, non certo la musica, anzi… tutt’altro, mentre la letteratura, tutto sommato, mantiene il suo posto nella società, anche se noi italiani leggiamo meno di molti altri Paesi.

Il celebre poeta messicano Octavio Paz, scomparso svariati anni fa, scrisse nel 1989 per non ricordo quale magazine spagnolo, e poi nel 1990 (questo lo ricordo bene) per la Seix-Barral: “Quand’ero giovane, noi artisti abbiamo combattuto il <realismo socialista>, una dottrina che pretendeva di sottomettere la letteratura ai dettami di uno Stato e di un partito che, in nome della liberazione dell’umanità, erigeva monumenti alla gloria del frustino e dello scarpone. Oggi le arti e la letteratura non sono minacciate da una dottrina o da un partito politico onnisciente, ma da un processo economico senza volto, senza anima e senza orientamento. Il mercato è impersonale, senza anima e senza orientamento”. (…). “Per misurare la nostra penuria estetica e la nostra bassezza morale e spirituale, basta pensare ad un ateniese del V secolo a.C., ad un romano dei tempi di Traiano e di Marco Aurelio o ad un fiorentino del Quattrocento”. (…). “In un mondo dominato dalla logica del mercato la poesia è un’attività che non rende nulla. I suoi prodotti sono scarsamente vendibili e poco utili. Per la mente moderna la poesia è energia, tempo e talento trasformati in oggetti superflui”.

Tornando a noi, soffermiamoci un attimo sul fatto che molti autori tornano a sentirsi protetti da un’aura ed investiti da un destino sublime, precipitando in oscurismi variamente definiti (ad esempio, il neo-ermetismo, che è colpevole di aver allontanato il pubblico dalla poesia).

Ricorderete tutti uno dei più grandi poeti italiani degli ultimi decenni, Mario Luzi, non molti anni fa ‘Senatore a Vita’, fino al suo decesso. Fiorentino, per un decennio proposto dall’Accademia dei Lincei per il Premio Nobel (incredibilmente, in uno di quegli anni, il Premio andò a Dario Fo, e per protesta verso gli accademici di Svezia, l’Accademia dei Lincei, unica a dover e poter presentare il nome dell’autore italiano in corsa per il Nobel per la Letteratura, si rifiutò di nominare alcun autore per l’Italia successivamente, perché giustamente sentitasi clamorosamente scavalcata, un po’ come se l’Accademia del David di Donatello presentasse, come fa ogni anno, il film italiano che concorre agli Oscar, e poi l’Oscar andasse ad un altro film italiano, peraltro cosa vietatissima dal rigido regolamento); ecco, Luzi amava affermare: “Assimilo molto volentieri il Novecento ad un secolo del Medioevo: il Trecento. Il Trecento è per noi un secolo dal sapere certo, sicuro, assunto in ottima fede per costruire una cultura ed un ordine globale. Il poeta trecentesco è immerso in una cultura di cui è parte, che condivide e che cerca di promuovere. Nella nostra epoca abbiamo un sapere abbondante, ma insicuro, analitico, non costruttivo. Il poema che ne nasce è discontinuo, frammentario, mette in dubbio se stesso, il proprio procedere, il proprio valere. Una poesia che sia ammirazione di ciò che ci viene offerto dal procedere naturale della vita è assente”.

Oggi i poeti, proprio quando va bene, sono invitati in tivù (peraltro, in canali secondari), messi nel salotto o sulla terrazza, a discutere pubblicamente. E si lamentano, si lamentano. Vero che l’attività del poeta non rende più nulla, ma questa è più una colpa del poeta che del pubblico. Avete fatto caso che quasi mai un libro di poesia entra nella Top10 o Top20 dei libri più venduti, dove – invece – regnano i romanzi, e non raramente libri comici di attori ed attrici? Ci sarà un perché, e anche più d’uno. Ed in parte ne abbiamo fatto cenno poc’anzi. Anche la più difficile saggistica ha una sua rilevanza ed un suo pubblico, seppur di nicchia; molto superiore a quello della poesia.

Ho perso tempo, ma neanche direi “perso”, a verificare le note biografiche dei maggiori poeti italiani attuali (dopo Luzi, peraltro, non ce n’è uno, e dico uno, che sia noto, almeno un po’, al pubblico!), Ebbene, al di là di chi vive o sopravvive da bohémienne, c’è un autentico esercito di insegnanti di scuole di ogni ordine e grado, alcuni collaboratori (talvolta saltuari) di quotidiani e periodici, perfino un bancario, uno psicoanalista, un operaio, e chi più ne ha più ne metta! Ormai, quello del poeta, anche importante nel suo ormai piccolo settore editoriale, è un hobby e non può essere nulla di più.

Avviandomi a concludere, emerge una poesia vittima del mercato, della crisi di valori e dalla straordinaria modestia “intellettual-spirituale” generale di massa, nonché dell’utilizzo svolto da mass-media e dall’inverosimilmente povero uso che la scuola ne fa, il che a mio personale parere resta una delle colpe più gravi se si considera l’importanza che un giusto esempio, un buon viatico, possano avere su di un giovanissimo. Ma, ovviamente, in questo caso parlo della poesia “che fu”, in tempi nei quali aveva ben altra fortuna ed il suo autore, il poeta, rappresentava una figura rispettata e non un povero “sfigato”, molto meno ascoltato perfino di un astrologo. Però, c’è anche la colpa di chi le poesie le ha fatte divenire, fino a pochissimi decenni or sono, una tortura da studiare a memoria, e non un qualcosa da insegnare, per far comprendere al meglio il significato dell’opera e lasciarlo decantare nello studente per tutto il resto della vita. A nessuno è chiesto di imparare a memoria un capitolo o una sola pagina di un romanzo, no? A cosa servirebbe? Solo una tortura, una inutile noia mortale, come quelle accozzaglie di idiozie più o meno in rima che si fanno “recitare” al bambino nelle grandi occasioni di raduno familiare piccolo borghese. Comunque, e chiudo, il poeta esca dall’ermetismo più oscuro, perché sono finiti da un bel pezzo i tempi del popolino che ascoltava i politici della “Prima Repubblica” e diceva: “Bravo. Parla bene. Non ho capito granché, ma proprio per questo dev’essere molto in gamba”. Ecco, non funziona più così. Non si può gettare la croce addosso al solo pubblico se tra i successi editoriali degli ultimi decenni la poesia non compare affatto, in barba all’antico adagio che vuole gli italiani come un popolo di “poeti, santi e navigatori”.

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