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Le cinematografie emergenti del bacino mediterraneo (Siria)

Come avevo anticipato nel primo articolo, nel mio ideale viaggio attraverso le cinematografie emergenti del bacino Mediterraneo, seguirò le coste meridionali dello stesso.

2 – SIRIA

da Still Recording
da Still Recording

Come avevo anticipato nel primo articolo, dedicato alla vasta cinematografia turca, nel mio ideale viaggio attraverso le cinematografie emergenti del bacino Mediterraneo, seguirò le coste meridionali dello stesso, seguendo un percorso da est verso ovest, da ciò che ci è più distante – e che conosciamo ancor meno – a ciò che ci è più vicino.
Così, arriviamo alla vicina Siria, dove negli ultimi anni di ben altro ci si è potuti occupare che di cinema, purtroppo, e nel silenzio assordante dell’occidente.
Il cinema siriano risulta essere degno d’una qualche citazione da quando, negli anni Settanta, è sorta una struttura statale, l’Organisme du Cinéma Syrien, che ha inviato in Francia i migliori giovani tra coloro che avevano manifestato velleità di cineasta. È così che, nell’ambito dei paesi mediorientali di lingua araba, la Siria ha conquistato una posizione di grande dignità a livello cinematografico, riuscendo a produrre una media di almeno cinque film l’anno, dopo i rari e timidi tentativi di far nascere un’industria del settore dalla fine degli anni quaranta e l’inizio del decennio successivo, quando all’estero, Italia inclusa, è arrivato il solo film “Aber sabil” (“Il viandante”, 1950) di Ahmed Orfan.
L’Organisme du Cinéma Syrien ha dapprima puntato tutto, dimostrando saggezza, sulla formazione dei più giovani, poi sulla realizzazione di molti cortometraggi, autentica palestra per i registi, i tecnici, gli attori del futuro. Solamente superata questa fase, che comunque si ripercorre ciclicamente per la formazione delle nuove generazioni, si è passati alla realizzazione di lungometraggi, spesso improntati sull’impegno e la sperimentazione, concernenti la situazione di vita del paese, quella politica in tutta la fascia mediorientale, la condizione dei giovani siriani, ecc.
Svariate pellicole vengono girate all’estero, soprattutto in Francia. Ciò avveniva, non di rado, già agli albori della fase per così dire “moderna” del cinema siriano, cioè quella fase organizzata dallo Stato, come detto, a partire dagli anni Settanta; dico “moderna”, in contrapposizione con i primi tentativi del nascente cinema nazionale del citato Ahmed Orfani e di Ayub Badry.
Qualche nota su alcune pellicole uscite in Italia e tutt’oggi, pur con notevoli difficoltà, rintracciabili. “Ahlam al madina” (“Sogni della città”, 1984) di Muhamed Malasa, vede protagonista un giovane immigrato in Siria, alla fine degli anni Cinquanta, alle prese con le difficoltà del vivere quotidiano, le speranze di unità araba, l’intenso ma originale rapporto con la madre, giovane e triste vedova.
Omar Amiralay, dieci anni prima di Malass aveva affrontato, pur da angolazioni diverse, il tema della povertà dei vasti ceti minori in Siria (pur senza ricorrere all’angolo visuale del giovane immigrato di cui sopra) con “Al hayatt al yawmiyah fi qariah suriyah” (“La vita in un villaggio siriano”).
Negli ultimi decenni, ancor più negli ultimi anni, la vita sociale e pacifica in Siria sono state cose assai rare e complesse, a dir poco. Ovviamente, non c’è più stato spazio per pensare all’arte cinematografica. Ma molti autori siriani, formatisi in maggioranza alla Scuola Nazionale di Cinema di Parigi, sono riusciti a realizzare in questi ultimi anni dei film rilevanti, anche sulla situazione attuale nella loro patria. Andiamo a vedere insieme alcuni di essi.
“#ChicagoGirl: The Social Network Takes on a Dictator” (titolo originale e per l’intero mercato internazionale) è un docu-film co-prodotto da Siria e USA nel 2013, per la durata di poco più di un’ora, con un gran bel ritmo espositivo ed un quadro rappresentato inevitabilmente non facilmente accessibile e sicuramente complesso. Diretto dall’italo-americano Joe Piscatella, vede protagonista la giovane, e anche piuttosto affascinante, Ala’a Basatneh ed i suoi compagni di lotta, che dovranno decidere quale sia il modo più efficace per combattere un dittatore: i social media o le armi. Da Chicago, Ala’a, 19 anni, usa i social media per coordinare la rivoluzione in Siria, con l’aiuto di Aous, che studia a Damasco, di Bassel, studente di cinema negli USA tornato in Siria, e di alcuni giornalisti di Homs.
All’inizio Ala’a aiuta a preparare le manifestazioni in Siria, a stabilire l’itinerario dei cortei e le vie di fuga. Quando Assad reprime le proteste e oscura i media, Ala’a e la sua rete, usando smartphone e telecamere digitali, trovano un sistema per mostrare al mondo ciò che sta realmente accadendo in Siria: si gira un video, lo si carica su internet, Ala’a lo scarica, lo sottotitola in inglese e lo invia alle agenzie di stampa internazionali. Ma Assad bombarda Homs, e i video diventano grida d’aiuto rivolte alla comunità internazionale.
Ala’a e i suoi compagni dovranno decidere quale sia il modo più efficace per combattere per la libertà: i social media o le armi. E le cose si complicano e si rendono più complesse, perfino per lo spettatore.
Francamente, sono stati ben pochi, in Italia come nel resto del mondo, Stati Uniti parzialmente esclusi, a poter vedere questo documentario quasi sconosciuto.
Noi l’abbiamo raccontato così com’è, senza prendere posizioni politiche che non ci competono, perché raccontiamo cinema e solo questo.
“Coma” (Siria, Libano 2015) è ancora un documentario che vede protagonista, stavolta nelle vesti di regista, una giovane donna, Sara Fattahi, il che non è poca cosa se si pensa che si parla di Siria (peraltro, non sono così tante le donne regista in Italia…). Un debutto notevole, con qualche inevitabile ingenuità nel mix di troppi stili e tecniche diverse, tratte per lo più dal cinema sperimentale, ma con un talento che verrà fuori, perché possiede un margine di miglioramento notevole.
Il documentario di Sara Fattahi rappresenta una riflessione simbolica, complessa, feroce, sul tragico destino della Siria. Tre donne – nonna, madre e figlia – vivono recluse in un vecchio palazzo di Damasco. Hanno scelto di condurre un’esistenza in volontaria prigionia estraniandosi da una città in perenne stato di assedio. Mentre fuori infuria la guerra, le donne si aggirano nelle stanze come fantasmi ancora in vita, con la surreale colonna sonora di appassionate soap siriane a sottolineare la surreale modalità esistenziale, un po’ da auto-difesa, delle tre donne. Una vita ai margini di una crudele realtà. Una “vita – non vita”, in una sorta di stato di coma.
“I bambini del califfato” (tit. orig. e per il mercato internazionale “Of Fathers and Sons” – Siria, Libano, Qatar, Germania 2017) è un altro documentario, a dimostrazione del fatto che è pressoché impossibile, o quasi, mettere in scena un film di finzione, con regolari set e lavorazioni di mesi in un territorio martoriato da violenze e guerra.
Per la regia di Talal Derki, il documentario è uscito in Italia due anni dopo la realizzazione, esattamente il 24 settembre 2019, distribuito dalla indipendente Zenit.
Estremamente coraggioso, a rischio della propria vita, l’autore Talal Derki torna in patria dove ottiene la fiducia di una famiglia di islamisti radicali, condividendo la loro quotidianità per oltre due anni. Si tratta di esponenti di Al-Nusra, braccio siriano di Al-Qaeda. Abu Osama combatte il regime credendo fermamente nella legge della Sharia e vive con la sua famiglia, i cui figli sono avviati verso l’estremismo islamico. Talal Derki ha trascorso ben due anni fingendo di essere un sostenitore della jihad per seguire da vicino le dinamiche di un padre che educa i propri figli alla guerra, riuscendo ad entrare all’interno di un mondo inaccessibile, un orrore a noi quasi sconosciuto ed incomprensibile, e troppo frettolosamente e superficialmente raccontato dalla tv e dai giornali. Ci accorgiamo dell’enorme colpevolezza di questi ultimi, guardando questo coraggioso e rischioso documentario.
“Still Recording” (Siria, Libano, Qatar, Francia 2018 – tit. orig. “Lissa Ammetsajjel”) è un film di Ghiath Ayoub e Saeed Al Batal, uscito in Italia il 5 novembre 2018, per la distribuzione indipendente Reading Bloom, esattamente due mesi dopo la meritata vittoria del ‘Premio del Pubblico’ alla ‘Settimana della Critica’ della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Un film notevole che denuncia un orrore che va oltre l’orrore, e che purtroppo è realtà. Una realtà edulcorata, quando non totalmente sconosciuta e colpevolmente, nel mondo occidentale.
Due ore esatte che vanno diritte allo stomaco. Due giovani partono da Damasco verso Douma. Saeed è un giovane cinefilo che cerca di insegnare ai giovani di Ghouta, in Siria, le regole del cinema, ma la realtà che si trovano ad affrontare è troppo dura per seguire alcuna regola dell’arte cinematografica. Il suo amico Milad vive dall’altra parte della barricata, a Damasco, sotto il controllo del regime, dove sta terminando gli studi d’arte. Un giorno, Milad decide di lasciare la capitale e di raggiungere Said nella Douma assediata. Qui, i due mettono in piedi una stazione radio ed uno studio di registrazione. Tengono in mano la videocamera per filmare tutto ciò che li circonda, fino a quando un giorno sarà la videocamera a filmare loro. Altro non mi sento di dirlo, se non un passaggio della recensione dell’8 novembre 2008 a firma di Giancarlo Zappoli: “Ci sono film che non solo ‘si possono permettere di’ ma anzi ‘devono’ infrangere le regole del linguaggio cinematografico. Possono farlo quando il loro valore risiede proprio in quel bypass”.
In ultimo, pensate che le due ore, che ci sembrano tante, del film, sono il frutto di 450 ore di ‘girato’. Un ultimo dato: in questi ultimissimi anni di guerra, ben quattordici documentaristi hanno perso la vita.
“The Day I Lost My Shadow” (Siria, Libano, Qatar, Francia 2018) è il titolo di un film di Soudade Kaadan, interpretato da Sawsan Arsheed, Reham Al Kassar, Samer Ismael, Oweiss Moukhallalati, Ahmad Morhaf Al Ali.
Attraverso i canoni del realismo, anche qui, inevitabilmente, l’orrore e l’assurdità della guerra in Siria, vista dagli occhi di una donna, Sana, che viene abbandonata in un villaggio alla periferia di Damasco. Si tratta di una giovane madre che lotta per crescere il suo bambino di otto anni nella Siria dilaniata dalla guerra nel 2012. Tra interruzioni di acqua e di corrente un giorno si assenta dal lavoro per andare alla ricerca di un posto dove comprare una bombola del gas. Lungo la strada, incontra Jalal e sua sorella Reem, che sono alla ricerca della stessa cosa ed accettano di condividere un taxi per il viaggio. Ad un posto di blocco, i soldati sospettano che il loro autista sia un attivista. Temendo l’arresto, si mette in fuga, abbandonando i suoi passeggeri in un piccolo villaggio alla periferia di Damasco.
Che sia una donna a portare sullo schermo l’orrore e l’assurdità della guerra è già di per sé un fatto piuttosto raro e molto apprezzabile in quella zona del pianeta, ma abbiamo visto che ciò si è verificato anche in altre occasioni, sia per quanto concerne la parte di protagonista, sia per la quantità di registe donne che si sono moltiplicate in Siria negli ultimi anni, e non è cosa di poco conto. In questo caso, sono donne sia la regista, sia il personaggio protagonista del film.
Chi pensa che quanto accade in Siria sia ‘questione loro’ e non prova alcuna pietà ed empatia per questo popolo, in larga parte in fuga in questi ultimi anni, dovrebbe vedere questo film, e dopo l’ora e mezza di durata sarà molto difficile che non avrà cambiato idea.
“During Revolution” (Siria, Svezia 2018 – tit. orig.: “Fi Al-Thawra”) è il film – di poco meno di due ore e mezzo di durata – più completo sulla guerra civile in Siria, seguita dall’interno nell’arco di sette anni. Diretto ancora una volta da una coraggiosa donna, Maya Khoury, peraltro giovane e molto affascinante. Il film ha abbondantemente meritato una ‘Menzione Speciale’ al Festival di Locarno 2019.
Una donna, che non si vede mai, filma la propria gente durante la rivoluzione. C’è tutto quello che avviene in Siria tra il 2011 e il 2017.
Khoury mostra manifestazioni e matrimoni, esce nelle piazze e penetra nelle cucine dei suoi protagonisti, dà conto del dibattito politico pubblico e privato, e della metamorfosi della rivoluzione e della sua trasformazione in una proxy war (letteralmente una guerra per procura, ma spiegando meglio, si intende una guerra istigata da una superpotenza che non implica affatto la sua partecipazione). Testimonia l’arrivo di Al-Nusra (gruppo jihadista salafita, affiliato ad Al Qaida fino al 2016) a Raqqa e la disperazione degli attivisti, nel corso del tempo. Dona la parola ad un disertore dell’esercito siriano in pena per il destino dei suoi ex commilitoni, e ad un’attivista in lacrime perché, tra tutte le cose che la guerra le ha portato via, c’è anche l’impossibilità di vivere una storia d’amore in maniera ‘normale’. Il film apre con la gente in piazza nel 2011, quando lo slogan era “Libertà per i musulmani e i cristiani” e si chiude con la gente in fuga nella notte, con, alle spalle, Aleppo sotto i bombardamenti.
Non solo diario di un Paese in guerra, il film segue attivisti politici ed i loro ideali, la fede nella capacità di rinnovamento della Siria, gli scontri violenti con vari dilemmi generazionali e confessionali che diventano conflitti. Attraverso le sorti dei suoi personaggi nel corso degli anni, il film ci consegna una profonda riflessione politica sulla difficoltà di riunire un popolo, per cause e colpe interne e, forse soprattutto, esterne.
Di certo, lo ritengo personalmente il film più rappresentativo di questa personale rassegna che qui si chiude, almeno per ora.

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