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Le cinematografie emergenti del bacino mediterraneo (Tunisia)

Come già detto nel primo articolo della serie, mi occupo delle cinematografie emergenti del Mediterraneo, quindi quelle del nord-Africa e del medio-oriente...

4 – TUNISIA

3Come già detto nel primo articolo della serie, mi occupo delle cinematografie emergenti del Mediterraneo, quindi quelle del nord-Africa e del medio-oriente, e avevo anche anticipato che non potevo occuparmi del cinema della parte settentrionale del bacino Mediterraneo in quanto non certo emergenti (l’Italia è forse ancora la seconda cinematografia di tutto il mondo, considerato non il presente ma tutta l’intera storia della Settima Arte.
Poi, Francia, Spagna, Grecia, etc., hanno da grande a media rilevanza mondiale). Così come avevo detto che sarei partito da est per arrivare più vicino a noi, ad ovest. A questo punto, mi sarei dovuto occupare prima dell’Egitto e poi della Libia. Ho scelto di saltarle per motivi completamente antitetici. L’Egitto non è una cinematografia emergente, ma di assoluto rilievo (già 50-60 anni fa produceva anche più di cento film l’anno, esportandone una parte). Vanta dei divi, come l’arcinoto Omar Sharif (1932-2015), amatissimo in Italia, dove ha lavorato molto, e parlava – tra le tante lingue – molto bene anche l’italiano, e lo ricordiamo per “Lawrence d’Arabia” (1962), ma la lista sarebbe lunghissima; ma anche una bellissima e talentuosa attrice come Hind Rostom (1929-2011), detta la Marilyn Monroe d’oriente (personalmente, ho sempre trovato più affascinante ed interessante la Rostom), ed un regista straordinario come Youssef Chahine (1926-2008). Peccato solo che l’Egitto non abbia mai avuto una nomination agli Oscar. Mentre della Libia proprio non saprei cosa dire, non avendo avuto mai l’occasione di vedere o di sentir parlare di un film libico, che sia uscito in Italia, che lo abbia trovato nella Cineteca Nazionale, o citato tra i vasti documenti della “Biblioteca Luigi Chiarini” del Centro Sperimentale di Cinematografia, o in tutti i festival che ho seguito in poco più di un quarto di secolo. Nulla di nulla. Pertanto, ci spostiamo verso ovest e raggiungiamo la Tunisia.
Dal 1956, anno della sua indipendenza, la Tunisia ha preso a produrre una media di uno-due film l’anno, per poi aumentare quantità e qualità a partire dalla fine degli anni Settanta. Se le prime pellicole avevano come tema principale quello dell’indipendenza in tutti i suoi aspetti sociali, culturali, economici, da un certo punto in poi si è passati alle più svariate tematiche, con prevalenza (come abbiamo già visto, più o meno, in tutte le altre cinematografie trattate) per i disagi dei lavoratori più umili dei giovani emigranti. Del primo filone, che per intenderci possiamo definire “autonomista”, va citato “Al Fair” (“L’alba”, 1967) di Omar Khlifi che con coraggio produce anche il film; narra del dramma rivoluzionario sugli eventi che hanno condotto all’indipendenza della Tunisia.
Fantasioso ed affascinante è “Les baliseurs du désert” (“I remaioli del deserto”, 1984) che, nel pieno rispetto del cosiddetto “secondo filone” del cinema tunisino, tiene conto della normalizzazione dei rapporti con la Francia, essendo una delle non poche co-produzioni franco-tunisine degli ultimi quindici anni. Il film, scritto e diretto da Nacer Khemir, descrive l’arrivo di un giovane insegnante in un villaggio deserto dov’è stato destinato a lavorare nella scuola locale; ma non c’è alcuna scuola! Dal silenzio di una situazione surreale arrivano, come dal nulla, i “baliseurs”, un po’ i nomadi del deserto. Il giovane, affascinato da queste figure misteriose, si unisce a loro e scompare. A nulla approderanno le indagini compiute dall’ispettore di polizia chiamato dalla città per risolvere il caso. Khemir, regista della citata pellicola, nonché pittore di buona fama nazionale, incantatore e misterioso, portatore di domande senza sentire la necessità e la presunzione di dover dare delle risposte, è rimasto un punto di riferimento del crescente movimento cinematografico tunisino.
Ora, è chiaro che una cinematografia che ha sempre prodotto la media di un paio di film l’anno, esportandone due o tre ogni decennio e senza particolare successo, fosse anche solo di critica, non c’è molto da dire, se non che c’è una ripresa da circa un decennio a questa parte, e così facciamo un salto per trattare cinque pellicole di rilievo che hanno raggiunto anche le sale italiane, e che quindi ho potuto vedere.
Del 1990 è “Gli zoccoli d’oro” (tit. orig. “Lès sabots en or”), diretto da Nouri Bouzid, produzione completamente tunisina, senza necessità alcuna di co-produzioni internazionali, una cosa rara in questa fascia geografica, ed anche coraggiosa. Ideato e scritto interamente da Nouri Bouzid, si avvale del cast composto da: Hichem Roston (Youssef), Hamadi Zabrouk (Sghaier), Mshkat Krifa (Zeineb), Fethi Eddaovie (Abdu Allah), Sabah Bouzouita (Fatma), Farah Kadar (Raja), Saida Ben Chedii (Madre di Youssef).
Trent’anni dopo l’indipendenza della Tunisia, Youssef Soltane viene rilasciato al termine di anni di torture e detenzione. È un intellettuale, oppositore di sinistra, quarantacinquenne, che – dopo le esaltazioni e gli entusiasmi delle ideologie – non può ora che constatarne il fallimento. Quindi, si tratta di un film politico ed in buona parte anche autobiografico, anche se mai totalmente ammesso dall’autore. Storia di illusioni e disincanti, di ideali sofferti e pagati duramente di persona, poi miseramente ed inevitabilmente caduti, perché – da una parte come dall’altra – fondati su molto meno di quanto si pensasse. Il tutto è ambientato, non casualmente, lungo un viaggio durante una notte invernale, ricca di incubi e di constatazioni amare. L’uomo soffre nelle idee e negli affetti, finché alla sua sconfitta non resta altro rifugio che il suicidio.
La regia di Nouri Bouzid ha inteso marcare le stigmate di un tale dramma politico ed esistenziale, dandogli come spazio e cornice un’intera notte (scelta assolutamente indovinata), in cui il reduce, rivivendo ideali e ricordi fra i più dolorosi e crudi, urta senza soste contro una realtà assai amara. Di contro, l’operazione è affastellata, spesso ricca di ripetizioni di concetti (non per forza verbali) e manca spesso di chiarezza e di talune indispensabili censure, se si vuole dar vita ad una storia e non ad un film da Istituto Luce degli anni Venti o dell’intera cinematografia sovietica del Novecento. Evidente è la volontà di proporre un riesame degli errori compiuti in sede di valutazione politica, oltre che di ambizioni rivelatesi improponibili ed irrealistiche, con tutti gli eccessi di un integralismo politico mai messo in dubbio e che si è lasciati infilare in testa come con un imbuto. L’insieme appare macchinoso, molte cose sono decisamente grezze dal punto di vista filmico e l’amarcord politico del protagonista risulta, come detto, non raramente ripetitivo, anche lamentoso. Ma il film non difetta affatto di interesse, altrimenti non l’avrei scelto per questa breve storia della cinematografia tunisina. Non poche e pesanti le crudezze, come quelle realmente girate nel mattatoio di Tunisi, e da un cavallo ucciso e macellato deriva il titolo, oltre al paragone con il protagonista, sentitosi finito fino all’”automacellazione”, vale a dire al suicidio.
“Appena apro gli occhi” (2016 – Tunisia, Belgio, Emirati Arabi Uniti, Francia – tit. orig.: “A’ peine j’ouvre les Yeux”), soggetto e sceneggiatura di due donne, Leyla Bouzid e Marie Sophie Chambon, per la regia di Leyla Bouzid, interpretato da Baya Medhaffer (Farah), Ghalia Benali (Hayet), Montassar Ayari (Borhene), Aymen Omrani (Ali), Lassaad Jamoussi (Mahmoud), Deena Abdelwahed (Ines), Youssef Soltana (Ska), Marwen Soltana (Sam), è stato presentato in anteprima mondiale proprio in Italia, a margine della rassegna festivaliera di Venezia, più esattamente alle “Giornate degli Autori Venice Days”, che nella prima decade di settembre 2015 vedeva la sua 12ma edizione, ed in quella occasione il film della Bouzid conquistò il “Premio del Pubblico BNL”.
La sinossi. Tunisia 2010. La capitale è percorsa da segnali sempre più insistenti come la preparazione alla Rivoluzione contro il governo Ben Alì. Farah, diciotto anni, ha una passione per il canto e si esibisce nella band Joujma, un gruppo che esprime posizioni di protesta. La famiglia vorrebbe che lei studiasse medicina, ma Farah non vuole rinunciare alla musica. La mamma la mette in guardia da possibili pericoli, ma inutilmente.
I film testimonianza sulla c.d. “primavera araba” aumentano in quel periodo e delineano meglio ruoli, compiti ed atteggiamenti dei partecipanti, o almeno di alcuni di loro, a seconda della fascia generazionale. Farah – ad esempio – è minorenne ed è una giovane donna; i suoi genitori non sono anziani, eppure sembra che tra le due parti ci sia una distanza netta e profonda, come se si trattasse di tre o quattro generazioni nel nostro mondo occidentale. Il padre della ragazza vuole vederla studiare Medicina. La madre è combattuta tra il volere del marito e la passione della ragazza per la musica ed il canto. Di fatto, Farah trascorre in discoteca la maggior parte del proprio tempo. Ma questo vuol dire restare fuori casa la sera e rendersi autonoma. La voglia di raggiungere l’obiettivo porta Farah ad atteggiamenti che mal si conciliano con il ‘suo’ contorno. Litiga con il ragazzo e, soprattutto, quando le viene impedito di entrare in discoteca, canta un brano con parole sue che attirano l’attenzione della Polizia. Interrogata a fondo, Farah deve constatare sulla propria pelle che la situazione si sta facendo difficile. L’atto d’accusa contro le progressive limitazioni della libertà è forte e preciso. L’invito a ribellarsi parte dai giovani, forza trainante di un nuovo movimento per maggiore movimento e libertà.
Film opportuno e necessario, in uno scacchiere nord-africano sempre più incerto e traballante. Il miglior film tunisino, a mio parere, su quelli dedicati a quella recente fase storica, drammatica, e non del tutto superata.
“Mektoub, My Love: Canto Uno” (2017 – Tunisia, Italia, Francia) è un film di ben tre ore esatte, sceneggiato da Ghalya Lacroix, Abdellatif Kechiche tratto dal romanzo “La blesure, la vraie” di Francois Bégaudeau, per la regia del tunisino naturalizzato francese Abdellatif Kechiche, arcinoto dai cinefili più attenti e non solo, per film francesi quali: “La vita di Adèle”, Palma d’Oro per il miglior film al Festival di Cannes 2013; “Tutta colpa di Voltaire”, Leone d’Oro per la migliore opera prima alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia 2000; lo splendido “La schivata” (2003 – tit. orig.: L’esquive”), che è valso molti Premi César (l’Oscar francese, o – se volete – l’equivalente del David di Donatello italiano) nel 2005, per il miglior film, la miglior sceneggiatura, la miglior regia e la miglior attrice rivelazione femminile, la straordinaria Sara Forestier. Solo sette film in vent’anni di una carriera iniziata solo a 40 anni di età, ma di altissimo prestigio internazionale. È tornato nella sua nativa Tunisia per questo film del 2017 e per il suo seguito, “Mektoub, My Love: intermezzo” (2019). Ma torniamo al primo dei due.
Interpretato da Shain Boumédine (Amin), Ophélie Bau (Ophélie), Salim Kechiouche (Tony), Lou Luttiau (Céline), Alexia Chardard (Charlotte), Hafsia Herzi (Camélia), Delinda Kechiche (Dede), Kamel Saadi (Kamel), Meleinda Elasfour (Meleinda), Estefania Argelish (Esmeralda), il film è ambientato a Parigi, dove il protagonista vive provando a fare l’aspirante sceneggiatore; il giovane Amin torna per l’estate nella sua cittadina natale, un piccolo borgo nel sud della Francia. Qui ritrova famiglia, amici d’infanzia, la voglia di ridere e scherzare senza limiti, né freni.
Il film, in Concorso a Venezia 2017, ma senza ottenere premi, ci vede di fronte ad un’estate, anzi all’“estate”, come stagione dello stordimento e della perdita di equilibrio. L’estate che significa divertimento e follia. In “Mektoub”, il regista tunisino esalta la libertà senza freni che si impadronisce delle menti, va alla scoperta di uomini e donne perse in un unico, delirante assalto alla sfrenatezza. C’è qualcosa di enormemente eccessivo nell’insistenza con la quale si mostrano amici e luoghi, si parla e si commentano fatti e parole. L’autoreferenzialità del cambiamento cade con rumore su un tono di irresponsabile fragore. Forse Amin e Ophelie, i protagonisti, lasciano le rispettive posizioni per una solitudine che porterà tristezza e malinconia. Perché alla fine, il “Canto Uno” si sintetizza nel misterioso incontro tra Uomo e Natura. E le tre ore di durata diventano il duro adagiarsi verso un nuovo modo di concepire il cambiamento. Il regista guarda con troppa fissità, fino quasi a farsi del male. E noi con lui. Non resta che riprovarci, ed il regista di film ben più significativi (ma questa è la sua pellicola più tunisina, se così si può dire, ed è per questo che ha la possibilità di essere presente in questo lavoro, pur essendo ancora molto francese), ci ritenta con il seguito del 2019, come sopra citato, “Mektoub, My Love: intermezzo”, secondo capitolo della saga dedicata al giovane Amin e agli anni novanta. Il film, in concorso a Cannes 2019, anche qui senza riportare premi, vede Amin che ha finalmente incontrato la persona giusta per lui e ne è innamorato. Anche la sua carriera sembra arrivare ad una svolta decisiva, tanto che conosce un produttore disposto a farlo entrare nel mondo del cinema, dandogli la possibilità di debuttare come attore. La moglie del produttore, però, sembra essere particolarmente interessata a lui e ciò metterà Amin di fronte a un bivio: restare con la donna che ama oppure dare una svolta alla propria carriera, perché di certo il produttore non potrà gradire e permettere entrambe le cose, a dir poco. Film molto più riuscito di quello precedente, ma ne abbiamo fatto un solo cenno trattandosi di una co-produzione franco-italiana, senza nulla di tunisino, mentre il precedente film aveva importanti presenze di capitali e di personale tecnico del Paese di nascita e crescita del notissimo e pluripremiato regista.
Si chiude qui l’inevitabilmente non lunga e non eccessivamente incisiva breve storia della cinematografia tunisina, in ogni caso degnissima di essere trattata, ma che ha dato il suo meglio negli anni più difficili, prima dell’indipendenza, poi della c.d. “primavera araba”. D’altronde, anche il famosissimo e prestigiosissimo cinema italiano ha dato il meglio di sé nell’immediato ultimo dopoguerra con il c.d. “neo-realismo” e maestri come Rossellini, De Sica e tanti altri. I drammi sociali sono sovente una forma di enorme ispirazione e carica per gli autori già potenzialmente più dotati.

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