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Le cinematografie emergenti del bacino mediterraneo (Marocco)

Pressoché assente prima della Seconda Guerra Mondiale, il cinema marocchino vive una sorta di preistoria, di fase sperimentale...

6 – MAROCCO

Much-loved-inPressoché assente prima della Seconda Guerra Mondiale, il cinema marocchino vive una sorta di preistoria, di fase sperimentale (nei risultati e nei mezzi, non nel senso di ‘ricerca’) negli anni immediatamente seguenti l’ultimo conflitto mondiale. E proprio come per altri Paesi che si affacciano sul Mediterraneo e dei quali abbiamo fatto cenno, anche per il Marocco la svolta nello sviluppo dell’industria cinematografica scatta con l’indipendenza, se non erro nel 1956 proprio come per la Tunisia.

Ma anche dopo l’indipendenza, il cinema in Marocco trova difficoltà a spiccare il volo, tanto da doverlo considerare a tutt’oggi il ‘meno emergente’ di tutti quelli sin qui trattati. Finora soltanto tante difficoltà ed assenza, o quasi, di contributi statali per un Paese con una forte emigrazione verso Italia, Francia e Spagna (tema sempre caldo da almeno quattro lustri, non solo nella politica italiana).

Poche produzioni ed ancor più bassa qualità, con la stragrande maggioranza di pellicole che consiste in commedie musicali pessime. La qualità è andata appena migliorando (anche perché sarebbe stato difficile peggiorare, e non lo dico certo per offendere) dal 1981, anno nel quale lo Stato ha preso in considerazione un modesto appoggio al proprio cinema, così modesto da avermi indotto a scrivere poche righe sopra “assenza, o quasi, di contributi statali”. Molto lentamente, si comincia a vedere qualche modesto musical in meno e qualche storia degna di nota, soprattutto relativamente ai temi dell’emigrazione e dello stato di vita nelle periferie delle principali città: Rabat, Casablanca, Tangeri.

Il primo titolo, in ordine cronologico, da citare è “Wechma” (“Tracce”, 1971), scritto e diretto da Hamid Benani, storia di un contadino dedito all’ascetismo, che adotta un ragazzino orfano e ribelle. Originale il rapporto tra i due, con il padre adottivo che esorcizza, autolesionandosi, le malefatte del giovane. Alla morte del primo, quest’ultimo prende a frequentare cattive compagnie. Resterà ucciso durante una rapina. Poi, “Alayam, alayam” (“Giorni, giorni”, 1978) e “Transes” (“Angosce”, 1981) di Ahmed El Maanouni, sull’emigrazione che svuota i villaggi e sulla difesa della cultura ancestrale locale.

Ci vuole un grande salto di tempo per trovare qualcosa di cui parlare relativamente alla cinematografia marocchina, e quasi sempre posta in relazione all’Italia, come stiamo per vedere. Del 2006 è “Il pane nudo” (tit. orig.: “El Khoubz el hafi”), soggetto e sceneggiatura di Rachid Benhadj, tratto dal romanzo omonimo di Mohammed Choukri, il film è diretto dallo stesso Rachid Benhadj, ed interpretato da Said Taghmaoui, Faycal Zeghadi, Sanaa Alaoui, Karim Benhadj, Ahmed Elkourachi, Marzia Tedeschi, Armando De Razza (personaggio ‘arboriano’ di grande successo negli anni Ottanta e, in parte, Novanta), ed il lettore avrà già capito che si tratta di una co-produzione italo-marocchina (con larghissima maggioranza italiana), come spesso avviene.

La sinossi. Nella Tangeri del 1942 il piccolo Mohamed, chiuso nelle miserie di una famiglia poverissima, assiste al folle gesto del padre che uccide il fratellino, e poi viene arrestato. Sei anni più tardi, nel 1948, Mohamed, adolescente, trova lavoro come sguattero in un locale di ristoro, ma è insofferente e resiste ben poco. Molte traversie, fatica, dolori e incomprensione lo aspettano, prima che, uscito a sua volta di prigione, capisca che la sua vita ha bisogno di un sostegno forte per andare aventi. Il vuoto da colmare è quello dell’alfabetizzazione, della lettura, della memoria da ritrovare. Mohamed comincia a studiare, e, più tardi, ad avvertire il bisogno di farsi veicolo di conoscenza verso gli altri. Ormai maturo, eccolo fare il maestro. Quindi Mohamed va al cimitero, sulla tomba del padre. Qui, da lontano, osserva un bambino intento a tagliare l’erba che servirà da cibo per la famiglia: anche lui tanti anni prima aveva fatto lo stesso e la madre lo aveva rimproverato.

Datata 2009 un’altra co-produzione italo-marocchina, qui con prevalenza meno straripante da parte dell’Italia (anche se poi l’autore e regista è italiano come parte del cast), e si tratta curiosamente di un horror, diretto da Francesco Gasperoni, che ne ha curato da solo anche soggetto e sceneggiatura. Interpretato da Armand Assante (Edward Tollinger), Harriet McMasters Green (Clarissa), Robert Capelli jr. (Paul), Tara Lisa Haggiag (Geneva), Antonio Cupo (Tommy), Giorgia Massetti (Jameela), Mourad Zaoui (Rasheed), Manuela Zanier (Angelica), Rabie Kati (il cacciatore).

La sinossi. Sette ragazzi (quattro donne e tre uomini) arrivano in Marocco per una vacanza da passare in zone poco note. Quando si addentrano in un bosco fitto e capiscono di essersi smarriti, cominciano ad avere qualche paura. Geneva, che aveva deciso di allontanarsi e stava tornando a casa, è uccisa alla stazione. Un cacciatore incontrato sulla riva di un lago viene trovato impalato. Il motivo di queste morti violente resta misterioso. L’unico indizio sembra essere una macchina fotografica che Clarissa ha avuto in regalo. Di lì a poco anche Racheed, Jameela e Tommy restano uccisi. I superstiti a poco a poco cercano di difendersi. Sembrano riuscirci, ma la beffa finale è tragicamente in agguato.

Si tratta, come detto, di una co-produzione tra Italia e Marocco, di modesto livello e di poca vivacità. Non si capisce neanche se sia più ‘horror’ o ‘avventura’, restando sempre a metà tra l’una e l’altra cosa, anche se presentato e catalogato come film di genere horror. Ritmo basso, tono allentato e non convincenti prove del cast, nonostante qualche nome di buon rilievo, ma lo script resta modesto.

“Il mercante di stoffe” (2011) è ancora una volta una co-produzione italo-marocchina, in cui capitali, cast attoriale e cast tecnico sono quasi completamente italiani, da non volerne trattare qui più di tanto, perché questo film potrebbe e dovrebbe far parte di un dizionario di film del cinema italiano, a tutti gli effetti. In ogni caso, un breve cenno dicendo che la regia è di Antonio Baiocco, autore di soggetto e sceneggiatura insieme con Franco Cardi, con Sebastiano Somma (Alessandro), Emanuela Garuccio (Najiba), Marta Bifano (Silvia), Antonio Capobasso (Omar), Philippe Boa (Ali), Nadia Kibout (Aisha). Musiche di Tony Esposito e Sasà Flauto.

Molto brevemente la storia. Due italiani, Marco e Luisa, arrivano in Marocco con il compito di cercare in un villaggio abbandonato un medaglione appartenuto ad una giovane araba. Attraverso il loro racconto, ecco partire in flashback la storia di Alessandro, mercante di stoffe italiano, giunto in Marocco negli anni Trenta. Alessandro incontra Najiba, giovane araba, di cui si innamora follemente. Ma lei è promessa al figlio del capo del villaggio. La loro storia d’amore va avanti clandestinamente fino ad essere scoperti e Najiba paga con la vita questo suo amore.

Del 2015, finalmente un film marocchino, con co-produzione francese, ma con cast attoriale e tecnico pressoché completamente del Marocco. Un film complesso, scabroso, vietato ai minori di 14 anni anche in Italia, che tratta in maniera interessante tematiche come: Donna, Famiglia, Politica-Società, Potere, Sessualità, Violenza. “Much loved” (è il titolo per il mercato mondiale del film, forse il più venduto all’estero; il titolo originale è “Zin Li Fik”) è stato distribuito in Italia dalla società Cinema di Valerio De Paolis. Diretto da Nabil Ayouch ed interpretato da Loubna Abidar (Noha), Asmaa Lazkar (Randa), Halima Karaouane (Soukaina), Sara Elmhamdi Ealaloui (Hlima), Abdellah Didane (Said), e racconta la storia di quattro donne (Noha, Randa, Soukaina, Hlima) nella Marrakech di oggi, che fanno le prostitute. Piene di dignità e di indipendenza, nel loro piccolo regno al femminile, le donne riescono a superare la violenza della società marocchina, accettando i rischi, i compromessi, alcune umiliazioni che arrivano dalla frequentazione con uomini volgari ed arroganti. La complicità tra loro e la capacità di non cedere al pessimismo le aiutano a sperare in tempi migliori.

Dopo la presentazione al Festival di Cannes, alcuni passaggi del film sono stati resi pubblici su YouTube, e tra il prestigiosissimo festival e questa intelligente mossa, il film si è vista spianata la strada del mercato internazionale. Certo, in Marocco le cose non sono andate altrettanto bene, né sono state facili. Il film è stato dichiarato fuori legge, non proiettabile, il regista e le protagoniste hanno addirittura avuto assegnata una scorta. Nel momento in cui il Marocco lo ha vietato per grave offesa alla morale corrente, per il regista l’obiettivo è diventato quello di riuscire a farlo ‘vedere’ al pubblico. Non per darne un giudizio, ma per superare l’idea del ‘divieto’, della proibizione, della limitazione alla libertà individuale, e per questo si è servito soprattutto di YouTube. Certo, il tono del gioco erotico in qualche passaggio del film si fa azzardato, forse affidato ad immagini sopra le righe, non del tutto necessarie. Ma è anche vero che colpire duro vuol dire anche creare uno shock, uno sgomento. Si tratta di aiutare la società marocchina a non fermarsi ad ostinati stereotipi. Un film può ancora svolgere il ruolo di disturbatore di situazioni cristallizzate, e questo lavoro ci riesce in pieno. È il compito che si è assunto questa opera, riuscendoci completamente. Peraltro, va ribadito, è uno dei pochi casi di film marocchini esportati in vaste parti del mondo.

Termina qui il nostro viaggio attraverso un’immaginaria pellicola lunga tanto quanto l’intera costa meridionale di quel Mediterraneo che bagna anche le terre della nostra penisola.

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