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Il rapporto tra Federico Fellini e l’horror: l’avreste mai detto?

“Toby Dammit” (episodio di “Tre passi nel delirio”).

Federico Fellini-in
Federico Fellini-in

Nel centenario della nascita del cinque volte Premio Oscar Federico Fellini, pensavate di sapere tutto del grande maestro, ed è stato ricordato tutto dai media? Ovviamente, no. Almeno, per la netta maggioranza del pubblico. Ed è ovvio che sia così, trattandosi di una carriera lunga, ricca, più complessa di quanto ricordato dai più.
Andiamo direttamente alla seconda metà degli anni Sessanta. Era un momento assai difficile della carriera del già più volte Premio Oscar (Fellini ne vinse quattro più uno alla carriera, ma già in quel momento storico veniva da due Oscar: per “La dolce vita” -1960- e per “Otto e mezzo” –1963-, oltre che Palma d’Oro, ed una miriade di altri premi vinti in tutto il mondo nell’ultima dozzina di anni; difatti, il suo ultimo film, a quel momento, “Il viaggio di G. Mastorna” (1966), fu un fallimento totale, tanto da non essere mai uscito sugli schermi, perché ritenuto disastroso dallo stesso produttore, tanto che Fellini dovette pagare un’ingente penale, come se non avesse neanche portato a termine il film, e questo fece sì che il grandissimo cineasta riminese, romano d’adozione (venne con madre, fratelli e sorella piccola, verso l’inizio di via Albalonga, negli anni Trenta, quasi trent’anni prima che proprio quel tratto di via divenisse famoso – anche tra i turisti stranieri – per la Latteria Pompi ed il suo tiramisù dalla ricetta segreta), si ritrovò improvvisamente alle prese con problemi economici che non aveva più dagli anni post-giovanili trascorsi, magrissimo, nelle trattorie romane insieme con l’inseparabile amico Alberto Sordi, e – soprattutto – ebbe un momento (di circa due/tre anni) in cui nessun produttore voleva saperne di lui!
Così, libero da possibili fallimenti (tanto, peggio di come stavano andando le cose…) ed ancor più libero di fare quel che gli paresse, accettò la proposta che gli venne dalla Francia (non a caso non dall’Italia, che compartecipava in minima parte alla co-produzione largamente transalpina) di un film composto da tre mediometraggi (molti conoscono solo i termini ‘lungometraggio’ e ‘cortometraggio’, ma tutto quello che sta al di sotto dei 70-80 minuti e sopra i 20-30 minuti, è ‘mediometraggio’, come riportato anche negli articoli delle varie leggi statali italiane di intervento a beneficio delle varie forme cinematografiche e, più in generale, dell’audiovisivo.
Il film, uscito nel 1968, ebbe il titolo, nell’edizione italiana, di “Tre passi nel delirio”, alludendo proprio ai tre episodi che lo formavano, ed al genere cinematografico al quale gli episodi stessi appartenevano, vale a dire al genere horror; l’episodio girato da Federico Fellini aveva il titolo “Toby Dammit”, e per tutti i critici mondiali proprio questo fu l’episodio più riuscito tra i tre.
Si trattava di un libero adattamento cinematografico di Edgar Allan Poe, che stranamente non aveva mai avuto, sin lì, molta fortuna con il cinema. Le sue “Storie straordinarie”, così sottili ed acute, talune dall’aver avuto l’onore di essere state tradotte in francese da Charles Baudelaire, avevano ispirato di solito soltanto i cultori dell’orrido, i maniaci del thrilling, permettendo ad Hollywood di darsi una parvenza culturale proprio nel momento in cui, invece, si precipitava a capofitto, intimamente compiaciuta, nel più fosco grand-guignol, termine usato anche in Italia, soprattutto nei decenni scorsi, quando la lingua francese era molto più studiata dell’inglese, com’è capitato anche a chi vi scrive, derivante dal nome di un teatro parigino, proprio il Grand Guignol, attivo tra il 1897 e il 1963, specializzato in spettacoli macabri e violenti. L’aggettivo ‘granguignolesco’ è divenuto nel tempo sinonimo di macabro o cruento, anche al di fuori della terminologia relativa allo spettacolo; e così, per una volta, mi torna utile l’aver studiato francese, oltre ad una sana cultura generale.
Nel caso del film composto dai tre episodi, le cose – almeno in parte – andarono diversamente, e certamente in meglio, sia per Edgar Allan Poe ed il suo difficile rapporto con la Settima Arte, sia con il grand-guignol. Il film francese presentato fuori concorso al Festival di Cannes ed intitolato, nella versione originale e per il mercato internazionale, anche in omaggio a Baudelaire, “Histoires extraordinaires”, pur rifacendosi a tre racconti di Poe, non solo non li trattava in chiave di “film horror”, ma, per render loro il più possibile gli onori del cinema, li affidava addirittura a tre autori fra i più noti nei ranghi dell’arte cinematografica: Federico Fellini, Louis Malle e Roger Vadim.
Il più bravo, come detto, (e poteva essere altrimenti?) fu riconosciuto universalmente come Federico Fellini che, dovendo ridurre in “Non scommettere la testa con il diavolo”, un racconto di poche paginette tutto incentrato sulla scommessa di un tale che, nonostante le difficoltà dell’impresa, giura di riuscire a fare un altissimo salto in alto, mai riuscito ad alcuno, ha manipolato largamente Poe, ma per restituircelo alla sua reale guisa, in un modo affascinante e suggestivo.
Anziché all’epoca di Poe, Fellini ambienta il tutto ai nostri giorni, a Roma. Un attore inglese, pressoché sempre ubriaco, vi arriva per girare un western: fra le cose che ha chiesto ai produttori c’è anche una Maserati di cui vuole avere liberissimo uso. A Fiumicino, appena arriva, non c’è, ma gliela danno di lì a poco, ad una cerimonia di consegna di premi alla quale egli interviene come ospite d’onore. L’attore sale in macchina anche più ebbro del solito e parte a grandissima velocità verso mete che ignora. Un ponte è crollato, la strada è interrotta, gli operai gli urlano di fermarsi, ma lui grida: “Che il diavolo si prenda la mia testa se non ce la faccio”. Accelera, ma di lì a poco è morto, la testa mozza. Arriva una bimba misteriosa che lo segue a distanza da quando è a Roma, prende la testa e comincia a giocarci, come con un pallone. È il diavolo quella bimba? È il diavolo di Poe? È il diavolo di Fellini? Non importa chi sia, così come, nell’episodio, non importano più i veri significati narrativi, le segrete chiavi allegoriche: Fellini, del “suo” diavolo ha vestito il film dal principio alla fine, facendolo gravare su tutto e su tutti, con angosciose luci rosse, fumose, che rivestono Fiumicino, Roma, e tutti gli altri luoghi dell’azione di quelle stesse fiamme infernali care alla pittura tutta incubi di Scipione (non è diverso qua, il Colosseo di Fellini dal celeberrimo Colosseo di Scipione). Questa luce rossa distorce tutto, quasi sia proprio l’occhio con cui un demone vede ed interpreta tutto; suscita tensione e paura in chi ne è avvolto (a Fiumicino, soprattutto, dove il movimento passeggeri si trasforma in una tregenda si allucinazioni stregonesche), ma anche nello spettatore che guarda e che, ad ogni istante, sembra domandarsi non solo quali fantasmi si cerchi di evocargli alle spalle di una realtà abitualmente tanto quieta e normale (e adesso così lacerata e mutata), ma anche, e soprattutto, quanto quella realtà ora sia ‘mascherata’ e quanto, invece, sia finalmente e terribilmente ‘svelata’.
Fellini, però, qui non si compiace solo di far dramma; si diverte anche a scherzare e con il suo piglio più caricaturale e beffardo, soprattutto nella scena della premiazione della gente di cinema che, ancora una volta, egli sembra aver rubato alla penna cattivissima di Grozs e che, irridendo e ridendo, giunge ad offrirci un’altra ricchissima galleria di mostri felliniani. Gli stessi mostri, se volete, di “Giulietta degli spiriti” (1965), che in quel momento era il suo ultimo successo, anche se discusso, perché disorientante, spiazzante e spartiacque, così tanto diverso dai suoi precedenti film, ed in qualche modo anticipatorio di questo episodio del 1968, in cui Fellini, che non aveva niente da perdere, ma era compiaciuto, sorridente, irridente ed al massimo della sua magia, in un genere – quello horror – ben diverso da quello con il quale viene ricordato comunemente.
Il protagonista dell’episodio, che tornerà anche nella pubblicità a lavorare con Fellini, è Terence Stamp: una maschera tirata, distrutta, una mimica sempre sapientemente in bilico tra l’alcolismo e la follia.
Detto tutto ciò, è opportuno fornire anche una scheda dell’episodio felliniano del film, per i cinefili più attenti e curiosi.

Scheda
Titolo: “Toby Dammit” (episodio del film “Histoires extraordinaires”, nella versione italiana “Tre passi nel delirio”)
Anno: 1968
Durata: 43 minuti (ho impiegato infinitamente di più a scrivere questo articolo, ma molto di più ancora il felicemente pignolo e magistrale Fellini nello scrivere e realizzare l’episodio). Da notare che in alcune versioni censurate nelle scene più cruente, la durata è di 37 minuti.
Nazionalità: Francia/Italia (con netta prevalenza di impegni e capitali transalpini, e con l’idea di questa produzione venuta al francese Roland Eger, che si volle avvalere della collaborazione di Alberto Grimaldi)
Regia: Federico Fellini
Soggetto: libera riduzione dal racconto “Non scommettere la testa con il diavolo” di Edgar Allan Poe
Sceneggiatura: Federico Fellini e Bernardino Zapponi
Interpreti: Terence Stamp (Toby Dammit), Salvo Randone (padre Spagna), Antonia Pietrosi (l’attrice), Polidor (un vecchio attore), Anne Tonietti (commentatrice tv), Aleardo Ward (primo intervistatore), Paul Cooper (secondo intervistatore).
Musiche originali: Nino Rota
Fotografia: Giuseppe Rotunno
Montaggio: Ruggero Mastroianni
Per la cronaca, gli altri due episodi, tratti dalla già citata raccolta di racconti di Edgar Allan Poe, erano: “Metzengerstein” (37 minuti) e “William Wilson” (36 minuti), girati da Roger Vadim e da Louis Malle.

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