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Italo Calvino: il narratore dei sensi

Un’analisi dei tre racconti di “Sotto il sole giaguaro”, dedicati all’olfatto, al gusto e all’udito, e delle intenzioni dell’autore.

Italo Calvino
Sotto il sole giaguaro ed altro
“Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure,
anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde,
le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra.[…]
Le città credono d’essere opera della mente o del caso,
ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura.
D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie,
ma la risposta che dà a una tua domanda.”
(Italo Calvino, Le città invisibili)

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Italo Calvino

Personalmente, ho avuto a scuola la fortuna di avere un professore di Lettere, un classico brillante umanista partenopeo d.o.c. che nel suo piccolo si inseriva nel solco della felice tradizione di Benedetto Croce, il prof. Gaetano Gallo, che ci fece conoscere Italo Calvino, brillante ed originale narratore nato a L’Avana (Cuba) nel 1923 e prematuramente scomparso a Siena nel 1985, del quale voglio brevemente trattare con particolare riguardo ai tre racconti pubblicati sotto il titolo “Sotto il sole giaguaro”, dedicati all’olfatto, al gusto, all’udito. Mancano la vista ed il tatto, che pure erano nei progetti di Calvino, ma mentre egli scriveva quest’opera, morì; così, restarono i tre racconti terminati, che vennero pubblicati postumi nel 1986.
A rileggere i tre racconti completati da Calvino, accorpati – come detto – sotto il titolo “Sotto il sole giaguaro”, viene da pensare a quello che sarebbe stato il nuovo corso di Calvino – uno che già si è reso protagonista del passaggio della narrativa italiana dal neorealismo al postmoderno – e si finisce per concludere che la morte prematura è veramente una gran brutta cosa per tutta la letteratura del nostro Paese. Si tratta di tre racconti variamente fruibili e, per usare il più banale degli aggettivi, molto belli, ma purtroppo tre e non cinque, quali e quanti sarebbero stati se il libro fosse riuscito ad intitolarsi “I cinque sensi”, come sarebbe dovuto essere.
Ma che idea quella di realizzare un libro su un tema da pittura antica, quando la scienza era vicina alla mitologia e non andava molto al di là delle nostre percezioni. In Calvino, di antico e di desueto non c’è mai stato niente. Le sue scelte furono sempre ‘accoppiamenti giudiziosi’, e nella sua qualità di intellettuale si preoccupò, prima ancora che della propria scrittura, di fornire le coordinate dei suoi movimenti o delle sue stazioni. Che l’idea sia apparentemente antica e profondamente moderna lo dimostra anche il fatto che nella sua ‘estrema’ attività di scrittore, Italo Calvino venne affascinato da un tema che verrebbe da chiamare ‘esercizio’; con questa parola intendo la difficile sfida di una invenzione strutturale, formale, tematica, che attraversava in modo indiretto, trasversale, la tensione narrativa; così che la narrazione veniva colta ed adoperata nell’ambito di una ‘invenzione mentale’, in qualche modo definibile geometrica, un arduo incontro di astrazione e di tangibilità. Piuttosto che raccontare delle storie, Calvino finì per narrare le forme stesse della narrazione, con uno spirito di verità di certo diverso rispetto alle narrazioni basate direttamente sul reale, ma con un’esigenza mentale assai maggiore e più aperta di quella che si può rivivere nei racconti filosofici “Il visconte dimezzato” o “Il barone rampante”, dove ciò che è più deficitario è proprio l’umorismo.
Però, Calvino non è mai stato lo scrittore che pensa di vivere di rendita sul successo senza pungolare il proprio talento, anche se, narrando le forme della narrazione, poteva correre il rischio di scivolare nel ‘pastiche’, nel pezzo ‘à la manière de…’. Il racconto sull’olfatto riusa i sistematici sfaldamenti strutturali che avevano costituito lo scheletro portante di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, ma si rifà anche al registro di quei “Racconti fantastici dell’Ottocento”, attraverso i quali, nell’atto stesso di antologizzarli, il curatore si esprime in prima persona. E, pertanto, se la storia della dama sconosciuta che fugge lasciando solo la traccia del suo profumo potrebbe averla scritta Gautier, Calvino l’ha ‘doppiata’ con altre storie parallele: l’uomo delle caverne che segue la traccia della femmina e l’uomo della metropoli che, in una stanza dove si muore di freddo e di cattivo odore, ha individuato un’oasi di odore, la pelle di una splendida ragazza, come un’isola di salvezza. Ma a Calvino non basta neppure l’astuzia di contrapporre due odori ad un profumo: la società del profumo è resa in stile ottocentesco, mentre quando è di scena l’odore, la narrazione si fa vischiosa e quasi brutale.
Ecco, altrettanta, e forse anche più sottile, è la bravura di Calvino che emerge da “Sotto il sole giaguaro”, nel racconto sul gusto. L’azione si svolge in Messico, nelle zone archeologiche, che furono teatro di riti crudeli. Sulle prime si ha il sospetto che qui Calvino faccia del giornalismo alla Cecchi: poi ti accorgi che le digressioni sulla gastronomia messicana servono ad allacciarsi al motivo del sacrificio umano ed ai suoi possibili risvolti nutritivi, fino alla definizione di un superiore cannibalismo ed all’affermazione che per il cannibale la carne più saporita è quella di chi si è nutrito della stessa carne di chi ora si sta pascendo della sua! Un assurdo dal quale si potrà uscire solo in termini di simbologia erotica (e qui, da critico cinematografico, non posso non ricordare il film del 1991 “La carne”, del maestro controverso Marco Ferreri, all’epoca in gara al Festival di Cannes, con protagonisti Sergio Castellitto ed una ormai dimenticata Francesca Dellera, all’epoca molto nota non soltanto in Italia), ma che sta comunque a ribadire il concetto della sofisticata e vertiginosa bravura di un Calvino capace di combinare ed accomunare elementi apparentemente impossibili da unire, capace anche di non essere estremo ma semplicemente alternativo al realista o al moralista.
Questa, ovviamente, non è una recensione di “Sotto il sole giaguaro”, ma l’occasione per ricordare Italo Calvino, e magari farlo conoscere ai più giovani, che temo non sappiano niente di ciò e di molto altro ancora. Non avrebbe senso scrivere una recensione di un libro di una trentina di anni fa, seppure si trovi sempre (in varie ristampe e con diverse copertine e, spesso, diversi editori) nelle librerie. Però, per fare massima chiarezza, è bene fornire una sintesi molto breve e schematica dell’opera citata. Oltre al fatto che i tre racconti interni all’opera siano dedicati all’olfatto, al gusto, all’udito, essi hanno un preciso protagonista ed un altrettanto preciso oggetto. Nel primo racconto, il protagonista è Monsieur de Saint-Caliste, mentre l’oggetto è rappresentato dalla donna mascherata incontrata al ballo. Nel racconto successivo, protagonista ‘il primitivo’, l’oggetto del desiderio è la femmina di cui egli insegue l’odore. Nell’ultimo racconto, di quest’opera incompiuta, il protagonista è un musicista londinese e l’oggetto del desiderio è una ragazza distesa per terra.
Naturalmente, a simili ‘invenzioni narrative’ è lecito essere più o meno sensibili, ma con Calvino si è di fronte ad uno scrittore per il quale la limpida e geniale bravura ed originalità si unisce alla figura di un intellettuale, impegnato anche politicamente, che accarezza con passione l’idea che la scrittura possa essere al di fuori ed al di sopra di una ‘scrittura di genere’, pur nel comune riconoscimento del suo essere stato tra i massimi protagonisti della transizione epocale, in Italia, dal neorealismo al postmoderno; un po’ quello che è accaduto, più o meno negli stessi anni (o, per massima precisione, pochi lustri prima), nella poesia, per il tramite prima del Nobel Eugenio Montale, poi di Mario Luzi. Italo Calvino, che – in conclusione – vede le sue tante opere unite dal filo conduttore della riflessione sulla storia e la società contemporanea.

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