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Il trionfo di “The Hurt Locker”

 

A dispetto dei pronostici della vigilia e delle quotazioni delle principali agenzie di scommesse di ogni continente, i 40 milioni di dollari di costi di produzione -con qualche idea- di “The Hurt Locker ” hanno fortunatamente prevalso sui 500 milioni di dollari -senza idea alcuna- di “Avatar”, con quest’ultimo che appare costruito più come un video-gioco che come un film, che non poteva e non doveva aggiudicarsi il riconoscimento più prestigioso, seppure anche uno dei più sciocchi (abbiamo già ricordato quanto siano ben più condivisibili e credibili la Palma d’Oro di Cannes, il Leone d’Oro di Venezia, l’Orso d’Oro di Berlino, etc.) del cinema mondiale.

Qualcuno ha parlato, nell’immediata vigilia della notte delle statuette, di Davide contro Golia. I costi di produzione lo confermano. Di certo si è trattato di una sorta di sfida in famiglia, con “The Hurt Locker” firmato da quella Kathryn Bigelow che altri non è che l’ex moglie di Jim Cameron; si, proprio quello di “Avatar”! Incredibile, ma ad Hollywood è possibile anche questo. Qualcuno ha perfino espresso il timore che la votazione dei membri degli Academy Awards si potesse trasformare in una sorta di “referendum” a favore del marito o della moglie; una presa di posizione vero l’uno o l’altra, al fine di esprimere a chi dare la solidarietà per il matrimonio finito con un indecoroso lancio pubblico di stracci al veleno! Ma siamo certi che non sia stato così.

Presentato in concorso a Venezia 2008, “The Hurt Locker” non è un capolavoro, e non segna la punta più alta della cinematografia di Katherine Bigelow. Sicuramente “K-19”, presentato sempre a Venezia nel 2002, era superiore a “The Hurt Locker”. Quest’ultimo appare inferiore anche a “Point Break” (1991) ed a “Strange days” (1995), ma ha il non comune pregio di rinfrescare il già non esaltante genere cinematografico “di guerra”, riuscendo a fornire una chiave di lettura innovativa al genere stesso, mettendo idealmente all’indice la “cultura della guerra”, puntando piuttosto sugli incomprensibili errori ed eccessi dei conflitti, sulla guerra come un assurdo “mestiere” cui alcuni non sanno fare a meno, come si trattasse di una droga.

Come ogni anno, è inevitabile chiedersi, subito dopo la premiazione-passerella di Los Angeles, quale sia stato veramente il miglior film dell’anno. Difficile, forse impossibile, dirlo; ma non sono in pochi -incluso chi vi scrive- ad indicare “Il nastro bianco”, del regista austriaco Michael Haneke, meritatissima Palma d’Oro a Cannes. Alle spalle di Haneke, ci sembra corretto inserire “Katyn”, del polacco Andrzej Wajda, ed un gradino più in basso: “Tulpan – La ragazza che non c’era”, del regista kazako Sergey Dvortzevoy; “La custode di mia sorella”, di Nick Cassavetes; “Gran Torino”, di e con Clint Eastwood; “Lebanon”, di Samuel Maoz, Leone d’Oro a Venezia; “Welcome”, di Philippe Lioret.

Nulla di italiano? Beh, effettivamente non è stata una grande stagione per il nostro cinema,  nonostante il suo stato di salute sia migliore di quello che gli spettatori italiani pensano. Una citazione la merita senz’altro “L’uomo che verrà”, di Giorgio Diritti.

Ovviamente, il fatto che questi siano tra i migliori titoli della stagione non vuol dire che debbano piacere a tutti. Anzi, le pellicole che incassano di più (e che, di conseguenza, dimostrano di aver messo d’accordo la stragrande maggioranza del pubblico, a dispetto di quel che ne pensa la critica) sono solitamente le meno interessanti dal punto di vista meramente qualitativo; proprio come le proposte più valide sono quelle che non strizzano l’occhio al botteghino.

Da sottolineare la consueta schizofrenia dell’Academy, che -come avevamo già accennato molto recentemente- riesce a premiare pellicole non eccelse nelle tante categorie riservate ai film in lingua inglese (anche se quest’anno ci ha sorpreso abbastanza positivamente; niente di che, ben inteso), mentre riesce a riconoscere autentici capolavori nella categoria “miglior film in lingua straniera”. La lettura comparata dell’albo d’oro delle diverse categorie, parla da sola. Anche quest’anno le nominations nella categoria “miglior film straniero” erano di ben altra categoria rispetto a tutto il resto, ed il film argentino (“El secreto de sus ojos”, di Juan José Campanella) che si è aggiudicato la statuetta non sarà il migliore in assoluto, ma è vero cinema, ben più di tante pellicole “made in USA” che si sono spartite le statuette dei film in lingua inglese. Insomma, nulla di nuovo agli Oscar 2010; eccezion fatta per la fortuna di aver visto premiato come “miglior film in lingua inglese” (il premio considerato più prestigioso) un lavoro dignitoso (ma nulla più) e non il video-game di “Avatar”, concepito esclusivamente per sbancare i botteghini di tutto il mondo.

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