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La poetica sociale di Marco Ambrosi

Marco Ambrosi, autore della silloge “Volevo essere un angelo”, edizioni Luna Nera.

C’è sempre un quesito che “assilla” spesso il lettore di poesie e che gli pone, magari inconsapevolmente, un freno, se non all’acquisto, alla lettura perché il timore è quello di scoprire – specie se il poeta è conosciuto – una persona “diversa” da quella che normalmente si è usi frequentare. Nel caso di Marco Ambrosi, autore della silloge “Volevo essere un angelo”, edizioni Luna Nera, è vero il contrario. Averlo conosciuto ed aver potuto parlare con lui è stato fondamentale per capire la sua opera. Perché? Perché la scrittura poetica di Ambrosi non si presenta semplice all’approccio; egli chiede di entrare nelle sue parole, nel suo metaforico verseggiare non senza fatica e l’interpretazione delle sue poesie – che potrebbero “confondere” nella loro comprensione – sollecita la scoperta umana del suo autore.

E così veniamo a sapere che il nostro è un valente artigiano autonomo (e questo ha un senso profondo nella sua poetica) che, soprattutto ama, di quell’amore universale che lo rende sensibile ed attento a quanto avviene nella società di oggi.

Egli così si ritrova chiuso/aperto in quel mondo che è la poesia. Egli guarda alla sua provenienza, ai suoi luoghi ed ambienti e li legge non prima d’aver guardato dentro di sé; è il suo punto di vista, quello d’ogni poeta, d’ogni artista che si confronta gettando lo sguardo sul mondo. Egli definisce  la poesia “follia divina”, una “parentesi divina che venne partorita pura” e ne salta le parole.

In “VOLEVO ESSERE UN ANGELO …ma non so se ci sono riuscito…”, Marco Ambrosi cerca di vestirne i panni, perché è consapevole – e dai suoi versi traspare chiaramente – che l’unico motore della vita degli uomini è l’amore. Un amore che lo porta alla ricerca dell’altro ma s’accorge della difficoltà di trovarlo in una vita che è tutta di corsa e frenesia.

E forse per sfuggire a questi ritmi forsennati che la vita c’impone oggi, ch’egli si maschera – o si cuce addosso –  in una “corteccia”, “La mia scorza / sembra una postura /ma è solo vero amore/ che tenta di plasmare la sua storia”.

Una storia che lo porta a cantare “la vita dei non eletti”, quelle persone che soprattutto oggi sono sopraffatte dal disagio del vivere, non certamente voluto, ma procurato dalle circostanze. “Se vedo una mosca imbrigliata nella ragnatela del predatore, io salvo la mosca”.

Emblematica metafora della vita che lo porta ad incontrare “I soliti costretti dal futuro incerto”, vittime di “quei sovrani convenuti / nel prodigo impegno di fare cassa”, affannandosi per essi.

Egli è consapevole del valore dell’uomo, della sua essenza, della fatica del vivere che è la sua fatica  ma non può far a meno di cogliere come “ci muoviamo in branco/nel letto di un fiume/come pietre preziose/ma sporche di fango”. Ed è forse quel branco che vorrebbe scuotere, ignaro della sua ricchezza incapace di scrostarsi di dosso quel fango che aiuta a confondersi e non ad emergere.

Egli è un lavoratore ed ha fatto sue le tragedie che ultimamente hanno colpito molti uomini e donne, violentati nella loro dignità, raggirati ed…impotenti perché “persuasi dai poteri forti/ siamo statue”.

Un’immagine questa che riconduce a quella bellissima inquadratura de “Il Gattopardo”, e nella quale Visconti riassume brillantemente il suo aristocratico pensiero: durante la celebrazione della funzione religiosa, il Principe di Salina e tutta la sua famiglia appaiono come ingessati, incapaci o impossibilitati a cambiare..Ma davvero “occorre cambiare tutto per non cambiare niente?”

E’ questo l’interrogativo drammatico che traspare nei versi di Marco che vorrebbe cambiare il corso degli eventi se gli fosse concesso; ma una concessione se la fa. E’ vero,egli sembra inveire contro i poteri forti, ma non lo fa con rabbia né si rassegna, non si sottrae anzi è fiero di calavalcare l’onda non appena questa si presenta, perché ciò gli consente di affidarsi “al presente che comanda / ogni suo pensiero”, che così diventa azione e “che più si agita/più diventa vero”.

Ed ecco allora che quell’angelo che lui pensa di non essere, tale diviene, allorchè declina in tutte le sue forme il verbo “amare” ed invita ognuno a dedicare “il tuo tempo al destino” che forse mantiene e non promette ma al contempo realizza il compiuto che c’è in ognuno di noi che è “la ragione / di non sostare a lungo”; un sostare che non deve essere passiva attesa ma incessante ricerca della speranza che è l’unica vera via alla Vita.

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